Signor
Presidente, signori Consiglieri
la Proposta di Legge che andiamo a discutere in quest’aula non è il
frutto di un’ideologia, della ricerca di
consenso o di considerazioni “buoniste” ma è una presa d’atto, peraltro
tardiva, delle mutate condizioni di vita e di lavoro della nostra società.
Il
protrarsi di una crisi epocale che ha investito un po’ tutte le Nazioni ma
l’Europa in particolare ha precipitato milioni di persone nella povertà, con il
rischio concreto di esclusione sociale, senza differenze tra giovani NEET e lavoratori Senior
(40-50enni e oltre).
Oltre alle masse di inoccupati,
sottoccupati, disoccupati, espulsi dal mercato del lavoro in età matura sono precipitati in condizione da Working Poors i lavoratori indipendenti,
gli autonomi e i freelance.
Nel
giugno di ventitré anni fa (92/441/CEE) il Consiglio
dell’Unione Europea raccomandava
l'adozione di misure riguardanti il reddito minimo garantito che solo il nostro
Paese, insieme con la Grecia, ha puntualmente e pervicacemente disatteso.
Anche
in tempi recenti la
Commissione Europea, dinanzi a questo vero e proprio default sociale, individuale e collettivo, in un documento dell'”EU Network of Independent Experts on Social
Inclusion” sull'Agenda 2020, documento sorprendentemente sottaciuto in
Italia, rimarcando come non siano
rispettati i parametri di inclusione e garanzia sociale che i singoli Stati
membri dovrebbero adottare con Agenda
2020, registrati anche gli
effetti negativi delle politiche di austerity,
ricorda agli Stati membri che
devono attivare “degli schemi di reddito minimo (minimum income)” che garantiscano la possibilità di vivere in
condizioni dignitose.
Il fatto che il reddito minimo sia
stato teorizzato per la prima volta dal liberale inglese lord
William Beveridge nel lontanissimo 1942, realizzato poi nel 1948 dai Laburisti
inglesi, testimonia come non stiamo
parlando di una situazione nuova tanto è vero che le Nazioni più evolute
hanno risposto a questi bisogni con politiche di sostegno al reddito già dalla
seconda metà del Novecento.
Nel
2013 un
altro rapporto su “occupazione e sviluppi sociali”, sempre
dell’UE,
ricorda che l'Italia, insieme a Grecia, Spagna, Malta e i paesi Baltici, fa
parte del gruppo di paesi in cui è “drammaticamente aumentato il rischio di
esclusione sociale di lungo periodo” e “c'è un alto rischio di entrare nella
povertà e basse possibilità di uscirne, con la creazione di una massiccia
trappola della povertà”.
Considerato
che in tempi recenti sentiamo parlare della nostra Carta Costituzionale come un
vecchio arnese da aggiornare credo faccia bene a tutti ricordare quanto scritto
all’articolo 38 secondo comma: “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti
ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio,
malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Nel
modello sociale europeo il sostegno al reddito non è percepito/etichettato come
un provvedimento di sinistra o di destra: è l’abc della civiltà minima, quello
che nessuno si sognerebbe di toccare.
Questa filosofia ha fatto sì che l’Irlanda in piena
crisi economica, con un programma di austerità che noi definiremo “lacrime e
sangue”, ha continuato a garantire al singolo disoccupato 800 euro al mese
mentre una famiglia può arrivare a superare i 1800 euro, senza che si ci sia un
limite di tempo nella garanzia del reddito.
La
condizionalità e l’impegno
attivo da parte del beneficiario fa sì che questa forma di welfare sia molto
meno assistenzialistica di altre contribuendo alla maggiore occupazione e in
definitiva alla creazione di maggior ricchezza. Un ruolo centrale è svolto dai centri per l’impiego, dove passa
una parte importante delle offerte di lavoro. Non si tratta di un fatto
marginale. Soprattutto in un contesto, come quello italiano, nel quale il
lavoro diventa facilmente merce di scambio e dove esiste una forte incidenza
del lavoro informale.
Affermare che “regalare i soldi conviene allo
Stato” potrebbe apparire come una dichiarazione fatta sotto l’effetto di
sostanze psicotrope e invece sono le conclusioni cui sono arrivati numerosi e
qualificati ricercatori di varie Università dopo aver analizzato i risultati di
questo tipo di politiche in 45 Nazioni nei diversi continenti.
A titolo esemplificativo, ma non certo esaustivo, citerò
solo il lavoro di Evelin Forget, docente dell’università di Manitoba (Canada), che
nel 2004 ha analizzato i dati di un esperimento fatto a Dauphin, cittadina di
13.000 abitanti situata a nord di Winnipeg.
L’esperimento, durato dal 1973 al 1974, ha
coinvolto 1000 famiglie risultate sotto la soglia di povertà ed è costato 17
milioni di dollari.
Dalle 1800 scatole contenenti grafici, tabelle,
relazioni ecc. sul lavoro svolto è emerso che l’età matrimoniale media era
salita e il tasso di natalità era sceso. Il rendimento scolastico era
migliorato, i capifamiglia avevano lavorato con gli stressi ritmi di prima, le
donne avevano usato il reddito per un paio di mesi di maternità in più. I
giovani di contro lo avevano destinato allo studio.
Forse il dato più sorprendente era la riduzione
dell’8,5% delle visite ospedaliere con evidenti risparmi per la collettività.
Dopo un paio di anni erano migliorate anche gli indicatori di violenza
domestica e della salute mentale. Il reddito di cittadinanza aveva continuato
ad influire positivamente anche sulle generazioni successive.
Insomma il saldo finale giustificava quello che all’inizio
sembrava un ossimoro.
Politiche come queste andrebbero fatte a livello
Statale perché
è un problema che riguarda tutto il territorio nazionale ma è evidente che se
il Primo Ministro ha la convinzione che provvedimenti come questo siano
incostituzionali viene a mancare la volontà di trovare le soluzioni e le
risorse per risolvere questo gravissimo problema.
L’esigenza
che il FVG si doti di una legge come quella che andiamo a discutere nasce dai
dati emersi dal Rapporto Sociale 2013 in cui si evidenzia come anche nella
nostra Regione una fascia sempre crescente di cittadini stia scivolando verso
una condizione di povertà, relativa od assoluta.
Il quadro che emerge è tale che anche le forze
politiche storicamente contrarie a questo tipo interventi, se pur con un’ottica
diversa dalla nostra, sembrano meno ostili all’avvio di questa misura
sperimentale di welfare.
L’avvio
di una politica del genere deve essere necessariamente legato ad una fase di
sperimentazione dato che molte sono le variabili che entrano in gioco, ci sono
molti tipi di povertà e, come sempre, non si può prescindere vincoli monetari.
L’ambizione
è che questa misura sia il primo passo verso la concentrazione delle numerose e
variegate politiche di welfare in un unico strumento (reddito di cittadinanza)
il che, tra i vari vantaggi, permetterebbe non solo di snellire tutte le
pratiche burocratiche ma anche un risparmio di personale, cosa non marginale
per le casse della Regione.
Venendo
all’articolato:
L’art 1 stabilisce i principi e le finalità del
provvedimento; vengono richiamate la Costituzione e la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea e le azioni che la Regione sostiene per
contrastare l’esclusione sociale e favorire l’accesso al lavoro.
L’art 2 introduce la
“Misura Attiva di sostegno al reddito”, specificando il suo carattere monetario
e la modalità di erogazione per il tramite dei Servizi sociali dei Comuni in
collaborazione con i Servizi pubblici regionali competenti in materia di
lavoro. Viene inoltre definito il carattere sperimentale della misura (3 anni)
ed i meccanismi di monitoraggio periodico.
L’art 3 definisce i
beneficiari ed i requisiti e le condizioni d’accesso. Il beneficio è a favore
dei nuclei familiari, anche monopersonali, che abbiano un ISEE inferiore a
6.000 euro, di cui almeno un componente sia residente in Regione da almeno 24
mesi. Costituisce condizione di accesso al beneficio la disponibilità dei
componenti il nucleo familiare all’adesione a un percorso concordato di
attivazione finalizzato a superare le condizioni di difficoltà del richiedente
e del relativo nucleo familiare.
L’articolo 4 stabilisce che
il beneficio non può comunque superare i 500 euro mensili e può essere erogato
al massimo per 12 mesi, con possibile ripetizione solo dopo interruzione di 2
mesi.
L’art 5 specifica che la
domanda va presentata dai richiedenti ai Comuni di residenza per il tramite dei
servizi sociali.
L’articolo 6 definisce
l’obbligo di un percorso di inclusione tramite la sottoscrizione di un accordo.
Il patto può contenere sia obiettivi di inclusione sociale e di occupabilità,
sia obiettivi di riduzione dei rischi di marginalità connessi all’intero nucleo
familiare.
L’articolo 7 prevede che
sia un regolamento, da approvare definitivamente entro 60 giorni dall’entrata
in vigore della presente PDL, a stabilire caratteristiche specifiche della
misura.
Confido
in una rapida e quanto più condivisa approvazione.
Stefano
Pustetto